René Guénon, in quello che forse è il suo libro più profondo, intitolato “L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta“, parla dello Yogî, cioè di colui che pratica lo Yoga, una delle vie spirituali che conduce alla realizzazione dello spirito nell’Induismo, e lo descrive in questi termini:
“«Lo Yogî, il cui intelletto è perfetto, contempla tutte le cose come contenute in se stesso (nel proprio “Sé”, senza alcuna distinzione fra esteriore e interiore), e così, con l’occhio della Conoscenza (jnâna-chakshus, espressione che potrebbe essere resa abbastanza esattamente con “intuizione intellettuale”), egli percepisce (o meglio concepisce, non razionalmente o discorsivamente, ma mediante una presa di coscienza diretta e un “assenso” immediato) che ogni cosa è Âtmâ.”
Âtmâ è ciò che Platone chiamerà Psiche, e che in seguito in lingua italiana tradurremo col termine “anima”. Anima è ciò che siamo in quanto pensiero, essenza metafisica di cui la consistenza fisica è una sorta di vestito. Ma anima non è soltanto qualcosa che ci individua, che ci fa dire “Io sono in quanto penso”, come affermava Cartesio. Il vero Âtmâ, dicono gli induisti, coincide con il il Brahma, la Psiche Universale, l’Uno-Tutto, in una concezione ontologica per la quale esiste un unico Essere pensante, che si manifesta in molti modi rimanendo sempre e soltanto unico.
Lo Yogî, il saggio, questo lo ha compreso, e perciò è finalmente libero. Egli sa che il suo Sé non è qualcosa di limitante che lo rinchiude nella prigione della sua propria coscienza, ma è l’Essere Universale stesso, cioè è ogni cosa, che sia essere umano, animale, pianta, acqua, fuoco, terra o aria. Attenzione, lui non lo ha “capito”, non lo ha afferrato mediante un qualche procedimento logico. Lui lo “sa”, cioè è riuscito ad attivare quell’intuizione immediata della verità che Platone chiamava Nous, intelletto puro.
Splendida la descrizione che Guénon ci fornisce circa lo stato raggiunto dallo Yogî: “Egli è come l’Etere (Âkâsha), che è diffuso dappertutto (senza differenziazione), e che simultaneamente penetra l’interno e l’esterno delle cose; è incorruttibile, imperituro; egli è lo stesso in tutte le cose (infatti nessuna modificazione intacca la sua identità), puro, impassibile, inalterabile (nella sua immutabilità essenziale).”
Per lo Yogî gli “altri” non esistono. Gli “altri” sono solo, esattamente come lui, delle manifestazioni dello stesso Essere. Lo Yogî sa quindi che gli altri sono la sua immagine riflessa. Egli è così libero da ogni sentimento di competizione, di prevaricazione, di necessità di nutrirsi dell'”altro”.
Egli è fuori da ogni logica consumistica, non ha alcun bisogno di cibarsi di ciò che è fuori di lui perché non ha alcun bisogno di nulla. O meglio, quello che non ha, è quel che non gli manca. Attraverso la bocca nutre il suo corpo fisico di ciò che ad esso strettamente necessita, e nulla di più, perché alla sua mente non necessita nulla.
Perciò lo Yogî è libero. Perché non dipende da nulla e da nessuno, perché vive e basta, e quel “basta” significa che la sua vita non comprende più la sofferenza, ma è solo vita, perché questo è l’effetto del superare gli attaccamenti. Si vive e basta, si è nella pace: è questo il Bene-Essere.
Lo Yogî è la dimostrazione concreta che oltre tre millenni or sono gli esseri umani avevano già scoperto la Via, e la praticavano. Noi esseri umani dell’epoca del coronavirus, povere creature derelitte che tremano davanti a quel microscopico organismo fisico perché sono terrorizzate dal pensiero di soffrire e di perdere la propria esistenza fisica, siamo come dei morti deambulanti a paragone di uno Yogî.
E Guénon, splendido esempio di intellettuale poliedrico e profondissimo del XX secolo, ci consegna questa meravigliosa immagine di Uomo affinché noi si possa riflettere sulla distanza siderale che separa il nostro orizzonte esistenziale da quello dei Veda, e di tutta la Scienza Sacra.