Qualcuno mi ha chiesto quale sia, secondo la Tradizione, la virtù più importante per raggiungere la felicità. Io a questa domanda posso solo rispondere che, secondo la Tradizione, la felicità intesa come sperimentazione continua di uno stato di benessere, generalmente non esiste, e meno che meno esistono le virtù, intese come capacità particolari di un individuo rispetto a un altro, carismi, talenti, doti.
Per la Tradizione esiste uno stato, quello di Bene-Essere, in cui, quando lo si prova, non si ha nessuna esigenza di mutare, ma nel quale la grande maggioranza degli individui, anche i più saggi, non permangono di continuo, in quanto al massimo vi oscillano attorno. Anzi, la stragrande maggioranza degli individui questo Bene-Essere non lo ha mai provato al di fuori di due circostanze: quella, lunga qualche mese, in cui si è stati ospiti dell’utero materno e quella, quasi istantanea, in cui si ha la coscienza di chiudere gli occhi alla vita.
Alcuni individui particolari, e particolarmente fortunati, sono rimasti in tale Bene-Essere per periodi più lunghi, e pare che siano esistiti ed esistano individui eccezionali che abbiano acquisito la capacità di permanere perpetuamente nel Bene-Essere. I buddhisti li chiamano Arhat, sono esseri che hanno sfruttato così tanto bene l’esperienza del vivere dal comprendere cosa sia il Bene-Essere, il Nirvana, e quando lo comprendi ci rimani, non ti limiti a sperimentarlo come fa chi ci perviene solo occasionalmente, senza capire cosa stia realmente vivendo. Poi ci sono addirittura individui che pure avendo compreso e avendo quindi la possibilità di vivere nel Bene-Essere, vi rinunciano per rimanere nel mondo della sofferenza ad aiutare gli altri che soffrono a risvegliarsi. Questi individui infinitamente compassionevoli vengono chiamati dal buddhismo “Bodhisattva”, mentre i Vangeli li rappresentano con la figura simbolica del Cristo. Esistono anche in questo momento dei Cristo in giro sulla Terra, ma sono pochissimi, anche se a fronte della scarsa numerosità, valgono qualitativamente quanto l’intera umanità. Anzi, essi sono l’umanità. Essi un giorno termineranno di vivere nella sofferenza, diventeranno dei “Buddha”, cioè vivranno in uno stato di Bene-Essere completo e perfetto, perché tale stato eccezionale deriva proprio dall’avere vissuto nel modo più benefico possibile: per gli altri e solo per gli altri, come fa una madre per un figlio durante la gestazione.
In tutto questo discorso, non c’è traccia di alcuna virtù, di alcuna capacità eccezionale, carisma, talento o dote, essendo gli individui tutti assolutamente identici da questo punto di vista. C’è solo quel mistero imperscrutabile e inspiegabile dell’esistenza, chiamata possibilità di scegliere, che esiste tra l’altro solo per chi crede che esista. E c’è chi sceglie di restare sulla Via indicata dai saggi, dai bodhisattva, e c’è chi sceglie altrimenti, come chi c’è anche che crede di non avere alcuna scelta.
Ma la scelta della Via del Bene, per chi crede che esista, non è una virtù. Si tratta niente di più che di un esercizio di volontà, di puro arbitrio, niente di diverso da chi sceglie di andare nella direzione contraria. La differenza è che chi sceglie il Bene-Essere decide di assecondare la corrente (il Tao) e di nuotare in direzione di quel flusso, mentre altri scelgono la direzione contraria e continuano a sperimentare la sofferenza. Quindi se si vuole identificare questa scelta in qualcosa che somigli al nostro concetto occidentale di virtù, la scelta del Bene-Essere altro non è che una accezione dell’Umiltà.
Chi si fa piccolo, chi si fa leggero, non oppone nessuna resistenza alla corrente, al Bene. Chi si fa goccia, diventa oceano, e chi guarda negli occhi del lupo e vi scorge il Bene, diventa Bene.