Non esiste alcun’altra forma di benessere, eccetto la quiete.
Essa è come il cielo stellato in una notte silenziosa, quando gli unici suoni sono il frinire delle cicale e il fruscio del vento, difetti che rendono perfetta quella serenità, come affascinanti nei sul viso di una donna incantevole.
Oggi molti aspirano a riempire le proprie esistenze di esperienze eclatanti, emozioni conturbanti, successi travolgenti. Ambiscono a quello stato chiamato da sempre “felicità”, del quale tutti parlano ma che nessuno ha mai davvero sperimentato, se non in forma puramente illusoria. Si definisce felicità una gioia profonda che dovrebbe durare per sempre, ma non esiste alcuna gioia simile. Al contrario, l’aspirazione a raggiungere un tale stato è la principale delle illusioni destinate ad essere disilluse, perché qualunque stato di piacere, quanto più è profondo, tanto più è effimero. L’esistenza degli esseri umani di questa epoca somiglia così all’espressione di un cane rabbioso, che abbia appena terminato di divorare disperatamente qualche boccone trovato tra i rifiuti. Un’espressione di momentanea soddisfazione, a cui seguirà presto l’angoscia delle prossima, terribile fame, da provare a soddisfare aggirandosi disperato e sperduto per i vicoli bui di un inospitale quartiere.
La felicità è solo un istante di sazietà in mezzo a due lunghi periodi di fame.
Ma quando si riesce finalmente a rinunciare a questa ambizione, si ha la possibilità pratica di arrestare la propria corsa sulla strada della disperazione, ci si può finalmente guardare intorno e intravedere, alla luce di una luna che rischiara la notte, quel gradino di mattoni davanti a quel modesto uscio, che pare fatto apposta per mettersi a sedere, e prendere fiato.
Così, osservando il volto quieto della luna, dolce madre misericordiosa, capita finalmente di farsi invadere dalla quiete, quel meraviglioso sentimento che non è né gioia né dolore, né passione né indifferenza, ma piuttosto equilibrio tra forze contrapposte, che possono tutte convivere insieme, senza farsi reciprocamente danno.
Smettendo di desiderare, si trova finalmente il tempo di apprezzare ciò che si ha, e ci si stupisce di quanta ricchezza esista, in quello scrigno senza fondo che chiamiamo anima. E si iniziano ad accarezzare i ricordi, a sorridere davanti ai difetti che ci rendono così fragili e patetici, a soppesare i dolori con quella giustizia che si deve al loro ruolo. Comprendiamo che il gusto meraviglioso di quella quiete siamo in grado di provarlo, proprio grazie all’avere sperimentato il dolore.
E così, come suggeriva Leopardi, ci sovvien l’eterno. E finalmente capiamo che non esiste nulla di più sensato, profondo, autenticamente divino quanto il lasciarsi naufragare in questo dolce mare chiamato quiete. Un mare senza nemici, dove ogni goccia è mare e l’intero mare è in ogni goccia. Un mare dove non c’è alcuna sfida né competizione da vincere, perché c’è il viaggio a riempire il tempo, e la compagnia eccezionale della propria solitudine per renderlo indimenticabile.
Una solitudine che prende spesso la forma di un bimbo che si siede accanto a noi, a ricordarci cosa siamo davvero e cosa davvero sia importante per noi. Capiremo che quel bimbo è sempre con noi, e che quel bimbo è un piccolo, grande Re, in grado di donarci il più meraviglioso dei regni: la nostra stessa vita.
E quando non avvertiamo più la rabbia, il rancore, il livore per ciò che credevamo ci avesse ferito, per coloro che supponevamo ci avessero offeso, ci accorgiamo che il nostro corpo psichico e intatto e il nostro spirito giovane e pieno di bellezza, come una statua greca; ed è allora che diventiamo noi stessi come il mare, sempre fermo, come seduto sul nostro gradino, eppure capace di trasmettere il suo moto ondoso da un capo all’altro di un oceano. Perché chi ha trovato la quiete, in realtà non si siede mai. Naviga col pensiero rivolto alla luna, tra gli infiniti mondi e le sconfinate distese di universi di cui parlava Giordano Bruno.
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